Episode 6: # 5- Il Corpo e le sue Storie - Se questo è un corpo
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Nei giorni della memoria riecheggia con grande vigore la domanda che accompagna da decenni il genere umano. Sin dai primi istanti in cui si ebbe una maggiore contezza dell’orrore della Seconda Guerra Mondiale ci si è domandati: come è stato possibile l’Olocausto? Come è stato possibile per il genere umano concepire una tale disumanità? Le tracce di una possibile risposta, tra le tante, forse si trovano in Primo Levi. In Se questo è un uomo, Levi ci descrive i primi momenti vissuti nel campo di concentramento: «Ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitutini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di digniità e di discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero, decidere della sua vita o della sua morte». Con le parole di Levi percepiamo la completa e totale oggettivazione del corpo di un individuo. La totale riduzione a un semplice ammasso di ossa e muscoli, a un pupazzo di cui si può disporre a proprio piacimento. Su un corpo oggetto, disumanizzato, è possibile fare esperimenti, infliggere punizioni, costringerlo a eseguire lavori estenuanti, perfino eliminarlo, ridurlo in cenere. Solo così, solo riducendo l’individuo al suo involucro di carne e ossa, è possibile eliminare qualsiasi forma di pietas umana, la quale impedirebbe anche al più convinto aguzzino di levar mano su degli esseri umani in maniera così sistematica e seriale. Se c’è un insegnamento che ci ha lasciato l’Olocausto, e lo ha fatto in un modo terribile, drammatico, è che l’individuo è un essere incarnato nel suo corpo; corpo che assume una sua umanità quando gli vengono attribuiti dei valori, dei significati, quando gli viene riconosciuta una storia personale, una identità. L’individuo è un corpo che acquista una storia, che assueme un’identità unica e irripetibile. Invece, nella sua oggettificazione, il corpo diventa un fantoccio fuori dal tempo, senza una storia. Oggi, gli orrori dell’Olocausto sono dei ricordi di cui dobbiamo serbare la memoria, ma i meccanismi che lo hanno reso possibile continuano a rimanere nella storia dell’Uomo, in forma più o meno latente. Al migrante a cui non viene concessa un’immediata accoglienza e cura si applica lo stesso meccanismo di oggettificazione: egli viene riconosciuto come un fantoccio che può rimanere in balia delle disposizioni di un’autorità superiore e che può disporre del suo destino a proprio piacimento. E poi ancora: l’oggettivazione del corpo della donna apre le porte alle tante forme di abuso e di molestie che sempre più spesso vengono raccontate e denunciate. Quando Marina Abramović nel 1974 a Napoli dispone 72 oggetti su di un tavolo mettendoli a disposizione dei partecipanti affinché potessero interagire con lei e in paricolar modo, con il suo corpo. E quando tra questi oggetti pone strumenti di tortura e di morte come fruste, catene, metalli, pistole e lamette e lei si mette a disposizione in piedi dinanzi agli spettatori, i quali sono autorizzati a farle ciò che vogliono - ferirla, denudarla, perfino ucciderla - in quel momento lei si pone come un oggetto tra gli oggetti. Le foto della perfomance sono sconvolgenti e rappresentano la chiara oggettificazione di un corpo a cui è stata tolta l’umanità e a cui è possibile fare tutto, perfino puntare una pistola carica alla tempia. Questi e tanti altri esempi ci ricordano di come il vero progresso dell’umanità passi attraverso il riconoscimento dell’uomo come di un corpo umano.
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